sabato 23 febbraio 2008

Il paradosso della povertà

Sono sotto qualunque occhio, incredulo, indifferente o commosso, le immagini amare dello squilibrio che incombe tra i cittadini dello stesso mondo. Esse colpiscono i cuori di ciascuno, sensibile o ignavo, proponendo come pane quotidiano bambini scavati dalla fame, uomini ridotti a mucchi di ossa, donne costrette a non sognare. Noto con disappunto i facili utilizzi delle parole Nord e Sud del mondo. Se questi avessero connotati esclusivamente geografici non ci sarebbe motivo di opporsi, ma nel momento in cui si attua una distinzione serrata tra due economie, corrispondenti a due sistemi isolati, con la naturalezza di una mentalità già conformata a questa situazione, significa che abbiamo accettato questa frattura. Il linguaggio comune, tristemente spontaneo, comprende queste due parole, Nord e Sud, udibili nei discorsi delle persone, accompagnate spesso da rassegnazione o da proposte velleitarie, cosicché le idee si sfumano in un orizzonte di adeguamento in cui restano soltanto le due parole che ci acquietano: Nord e Sud.
Altre nomenclature poi invadono la nostra cultura, affinché sia possibile dare un nome all’atrocità che è scaturita e scaturisce dall’egoismo umano. Esistono infatti paesi detti “sviluppati”, che godono cioè di un’economia di mercato con una forte impronta industriale, che si differenziano dai “sottosviluppati”, dove la povertà non permette uno sviluppo economico. Inoltre sono sorti i paesi “in via di sviluppo” che individuano paesi dinamici, non stagnanti nella loro miseria. Ma sono conferiti termini ben più gravi dei precedenti, che enumerano in maniera classista il genere umano, mi riferisco alla suddivisione tra “Primo mondo”, paesi sviluppati, “Secondo mondo”, che non esiste più in seguito al crollo comunista, “Terzo mondo”, paesi sottosviluppati, e “Quarto mondo”, che ingloba i paesi più sfavoriti, stantii in una povertà cronica. Quest’ultima nomenclatura, seppur usata con intenzioni tutt’altro che classiste, lascia però trapelare una suddivisione che produce dei piani di uomini, con connotati qualitativi e meritocratici, considerandoli dunque, a livello involontario, primi o ultimi “in toto”.
Spesso mi chiedo se è giusto che tutti chiamino “Primo mondo” (consapevole della buona fede con cui viene attribuito questo nome) un groviglio di ostentate ricchezze, di persone smisurate, di giudizi superficiali che valutano l’avere apparente, tutto animato da uno spirito arrivista che instaura una lotta alla superiorità, dove l’uomo più debole ne esce quasi sempre sconfitto, e quello più forte si costruisce un ego titanico che crede imbattibile, ma che si rivela una vana superbia. Non credo che siano questi i veri eroi.
In generale i canoni per giudicare se un paese è ricco o povero sono: il prodotto interno lordo pro capite, la demografia (speranza di vita alla nascita, mortalità infantile, tasso di fecondità), condizioni igeniche e sanitarie, alfabetizzazione, le popolazioni urbana e attiva, i consumi, le esportazioni, la storia e le guerre. Un paese povero ha una convergenza di tutti questi aspetti in senso negativo. Inoltre, per molti stati che subiscono questa fatale convergenza, è altamente probabile contrarre debiti per far fronte al fallimento, ritrovandosi sottoposti ad un tasso d’interesse massacrante, che si riversa come una pioggia acida sulle generazioni future. Il debito, che si stagliò dopo la crisi del petrolio del 1973, supera i 1.600.000.000.000 di dollari, in costante rischio di aumento.

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